Si fanno pochi figli: è un problema reale? E la causa è davvero la precarietà?

Si fanno pochi figli: è un problema reale? E la causa è davvero la precarietà?

Il tema della natalità divide nettamente destra e sinistra, che si scontrano sul piano ideologico contrapponendo visioni diametralmente opposte. Tra le cause che più comunemente si attribuiscono a questo problema sono precarietà lavorativa e gli stipendi troppo bassi, che scoraggerebbero le giovani coppie dall’avere figli. Eppure, i Paesi che figliano di più sono proprio i più poveri. Non solo: i livelli di natalità nel nostro Paese erano più alti proprio quando si stava peggio. Economicamente. Allora, dove sta la verità?

Si fanno pochi figli: è un problema reale? E la causa è davvero la precarietà?

# Natalità: ennesimo tema strumentalizzato da destra a sinistra

L’Italia, e l’Occidente in generale, stanno vivendo uno dei periodi di minor procreazione: poche coppie si sposano e ancor meno fanno figli. Stiamo vivendo un vero e proprio inverno demografico, che non è affatto passato inosservato alla politica. Anzi. Questo tema che spesso attira l’attenzione delle classi dirigenti subisce però, come ormai di norma, una strumentalizzazione politica e ideologica tanto dalla destra quanto dalla sinistra. Una strumentalizzazione che allontana dalla verità.

Per la sinistra, la bassa natalità è un problema determinato da motivazioni prevalentemente economiche e di carenza di welfare. I giovani poveri e precari non fanno figli. La soluzione prospettata verrebbe dall’immigrazione: senza figli c’è più posto, in sintesi, come se i migranti fossero semplicemente dei numeri buoni per tappare i buchi. Sembra carente anche la logica della destra. In questo caso la bassa natalità sarebbe una vera e propria emergenza, soprattutto per l’identità nazionale: se gli italiani non fanno più figli, sono destinati a scomparire, soppiantati dagli immigrati che sbarcano sulle nostre coste. E per combattere la bassa natalità gli strumenti prospettati sono quelli del bonus figli o dell’assistenza economica. Insomma, due posizioni che seppur riassunte brutalmente, dimostrano grossi limiti. In particolare le domande sono due:

  • Ma davvero la bassa natalità è determinata da motivazioni economiche?
  • Ma davvero questo inverno demografico rappresenta un così grande pericolo?

# Se la bassa natalità è di origine economica, perché i Paesi più poveri sono quelli con più nascite? E perché quando l’Italia era più povera il tasso di natalità era superiore?

Per provare ad avvicinarsi di più alla realtà e meno alle visioni distorte di politici e partiti, è bene affidarsi ai dati imparziali. Effettivamente i numeri mostrano un quadro allarmante: secondo Istat, nel 2023 l’Italia ha registrato solo 379.000 nascite, il minimo storico, con un tasso di natalità di 6,4 figli per 1.000 abitanti. Inoltre la produttività italiana è tra le più basse in Europa, ed è penalizzata da una bassa occupazione giovanile, che si stima attorno al 33,9% (Eurostat 2023) e da un mercato del lavoro precario, con il 15,1% dei contratti a tempo determinato. Senza dimenticarsi degli ostacoli che affrontano le donne nel conciliare maternità e lavoro, non certo per un’incapacità di adattamento, quando per una chiusura da parte dei datori di lavoro. Questi dati riflettono dunque non solo un problema anagrafico in termini numerici, ma rispecchiano il fallimento di un sistema lento, eccessivamente burocratizzato che non valorizza le risorse. Il problema dunque non risiede né in questioni d’identità, né in sole questioni economiche da risolvere con l’immigrazione, né nella mancanza di stipendi adeguati per le giovani coppie. Bisogna ricordare infatti che i Paesi più poveri sono quelli che figliano di più, nonostante manchi il lavoro e l’accesso alle cure o ai bisogni primari. Non solo: la stessa Italia quando era più povera e senza forme di welfare, aveva tassi di natalità sensibilmente superiori. Qual è, dunque, il reale motivo di questa bassa natalità e quali sono gli strumenti per rialzarla, sempre che effettivamente serva?

# La realtà oltre l’ideologia: quello che conta non è la quantità di nuovi nati, ma che i nostri figli generino valore e benessere

Forse il problema reale è quello del ruolo che deve rivestire una persona in società. Se si parla di numeri, di uno uguale uno, di una posizione passiva e, per certi parassitaria, nel rapporto con l’ambiente circostante, allora meno nati ci sono meglio è. Perché in questo modo si avrebbe meno consumo di risorse e di opportunità. Anche perché, in un mondo in continua crescita, che conta più di 8 miliardi di persone, il problema delle nuove generazioni e delle più vecchie non è più la quantità della prole, ma la qualità delle opportunità che queste saranno in grado di generare.

Quello che manca è un orientamento educativo e formativo alla generazione di valore e di benessere. Ad oggi in Italia vige un sistema scolastico e lavorativo che, nella gran parte, tenta di omologare i cittadini sotto un’unica modalità formativa. Come se ognuno di noi fosse destinato a vivere in dipendenza da un sistema univoco e totalizzante. Le cose “che contano” non sono le reali competenze dei settori in cui uno, per inclinazione naturale, è più portato. A contare realmente sono i titoli di studio: non è un segreto che comunemente si crede di poter avere un buon stipendio solo se forniti di un titolo almeno universitario. L’imprimatur del sistema vale più delle capacità individuali.

Questo fatto rischia di trasmettere l’idea che la realizzazione personale, invece che rientrare in una sfera e in una responsabilità soggettiva, passi invece attraverso l’adesione passiva a un sistema sovrastante l’individuo. Non solo: il percorso formativo basato sull’apprendimento passivo rischia di produrre soggetti destinati a vivere in dipendenza dagli altri. Bisognerebbe, invece, insegnare che si può trovare soddisfazione anche e soprattutto attraverso i frutti di un concreto contributo alla collettività, ognuno secondo le proprie competenze e caratteristiche. Ossia, si vale e si viene gratificati in base a ciò che si genera, non allo stipendio che si riceve in un rapporto subordinato.

Un approccio del genere, finalizzato a valorizzare tanto i percorsi accademici quanto l’artigianato o i lavori di manovalanza, permetterebbe di sprigionare energie concrete in ogni ambito, recuperando anche “quei mestieri che gli italiani non vogliono più fare” e aumentare l’apporto lavorativo ed economico dei giovani italiani, aprendogli più luminose e concrete prospettive di realizzazione personale. A quel punto ciò che conta non è il numero di nascite, ma che ogni nascita porti non solo una gioia per la famiglia, ma una creazione di valore per l’intera società. Un po’ come un tempo i figli si facevano per fornire braccia utili ai lavori di famiglia, in futuro si dovrebbero vedere come delle luci, dei generatori di opportunità, ricchezza e benessere. Solo così l’Italia potrà invertire il concetto di declino demografico: non con numeri, ma con cittadini attivi e realizzati, capaci di costruire un futuro migliore e più sostenibile.

Continua la lettura con: C’è ancora posto per i poveri nelle nostre città?

RAFFAELE PERGOLIZZI